La crisi del gas: cerchiamo di capire

gas

Dove ci eravamo lasciati

Nel numero di Artemisia Magazine del luglio scorso, ci eravamo chiesti “Cosa vuole Putin con la operazione speciale” e avevamo accennato al problema dei rifornimenti energetici dalla Russia. Ora domandiamoci coma funziona e dove sta andando il mercato del gas, fonte di tensioni internazionali e di preoccupazione per famiglie e imprese.

Ricordiamo che il rialzo dei prezzi dei beni energetici si è registrato ben prima dello scoppio della guerra. Già a dicembre 2021 l’Arera, l’Autorità italiana di regolazione energia reti e ambiente, stimava un rialzo in bolletta per il gas del 41% e per l’elettricità del 55%. Tanto che il governo è intervenuto per mitigare i costi per decreto.

Se si guardano poi i dati IEA, l’Agenzia internazionale dell’energia, si vede come il gas sia passato dal costare circa 20 €/MWh nel maggio 2020, a oltre 70 nello stesso mese del 2021. Con successivi picchi, da marzo 2022 fino a 343 €/MWh il 26 agosto, proprio per lo scoppio della guerra. Si può quindi sostenere che la guerra abbia aggravato una situazione già preoccupante.

La Russia riduce ora le forniture di gas, per mettere i prezzi in ulteriore tensione. Al momento, tuttavia, assistiamo ad un calo dei prezzi del gas sulla piattaforma italiana PSV, passati dai 199,7 €/MWh del 13 settembre ai 103 €/MWh Btu del 7 ottobre, con un calo di circa il 50% in tre settimane. Sorprende il fatto che non se ne parli, quasi non faccia notizia.

Tra le ragioni della discesa, c’è sicuramente il calo di domanda dei Paesi europei che hanno completato gli stoccaggi (tra cui l’Italia).

Così Arera, l’autorità di regolazione del mercato dell’energia, ha dichiarato che da inizio novembre, per la prima, volta i parametri di calcolo per le bollette saranno rivisti in calo, grazie anche alla novità delle revisioni a cadenza mensile e non più trimestrale delle tariffe (introdotta proprio da Arera nel luglio scorso per integrare nelle tariffe del consumo al dettaglio ogni novità di prezzo in tempi molto più rapidi).

Quanto è datata la fornitura di gas russo all’Italia?

Si parte dall’accordo firmato il 4 dicembre 1958, in piena guerra fredda, da Enrico Mattei, presidente dell’ENI, con l’Unione Sovietica, per arrivare ai 29 miliardi di metri cubi di gas metano importati nel 2021, pari al 40% delle complessive importazioni, al 38% dei consumi interni, al 16% di tutti i consumi di energia.

Ad acquistare il metano è stato, quasi esclusivamente, sempre l’ENI.

Al rapporto preferenziale dell’Italia con la Russia, si aggiungeva quello della maggior parte dei Paesi europei, Germania in testa.

Questo è stato da sempre motivo di divergenza con gli Stati Uniti: nel vertice Versailles del 1982 si consumò un duro scontro tra il presidente americano Ronald Reagan e il presidente francese François Mitterand sui rischi politici che sarebbero potuti derivare da una eccessiva dipendenza dal gas russo.

Da dove proviene il gas

Secondo i dati elaborati dal Ministero della transizione ecologica, nel 2021 il consumo di gas in Italia si è attestato a 76.118 miliardi di Standard Metro Cubo (SMC)[1].

Sul totale, la produzione nazionale ha contribuito per circa il 4,5% (circa 3,5 SMC).

Le importazioni, invece, si sono attestate a 72,728 miliardi SMC, di cui il 40% è arrivato dalla Russia, il 29% dall’Algeria, il 10% dall’Azerbaijan, il 4,3% dalla Libia e il 3,2% dal Nord Europa (Olanda e Norvegia). Il restante 13,5% è dato da importazioni di GNL (gas naturale liquefatto) di varia provenienza (ma, soprattutto, dal Qatar).

Tuttavia, negli ultimi mesi la dipendenza italiana dal gas importato dalla Russia è diminuita in modo significativo grazie agli accordi fatti dal governo italiano con altri paesi fornitori, in particolare con l’Algeria e con i paesi del Nord Europa.

Complessivamente, nei primi sette mesi del 2022 l’Italia ha importato 10 miliardi di metri cubi di gas dalla Russia contro i 17 miliardi dell’anno precedente, mentre la quantità di gas importata dall’Algeria è passata da 12,8 miliardi di metri cubi a 13,2 con un aumento di poco superiore al 3 per cento.

Le importazioni di gas in Italia in milioni di metri cubi (Fonte: Ministero della Transizione ecologica).

Si potevano prevedere le criticità nelle forniture russe?

Sicuramente si. Ma gli interessi contingenti hanno avuto il sopravvento in Europa.

Soprattutto lascia perplessi la miopia nei confronti delle mire politiche di Putin: già nella sua dissertazione di dottorato nel 1997 all’Istituto Minerario di San Pietroburgo e in alcuni successivi articoli, chiariva il duplice obiettivo di ricostruire l’industria energetica (destabilizzata dalle scriteriate privatizzazioni di Boris Yeltsin) e fare dell’energia la leva per riguadagnare alla Russia il ruolo che le spettava a livello internazionale.

In effetti, Gazprom ha agito come strumento della politica estera russa. Invece, un esempio per tutti, la troika formata da Gerhard Schröder, Jacques Chirac e Silvio Berlusconi si incontrava per decidere le relazioni politiche tra Russia ed Europa, acuendo l’incapacità di darsi un’unica politica verso Mosca e ignorando l’uso della forza esercitata verso i Paesi confinanti, come la Georgia.

Del resto, la convinzione che il nuovo corso russo offrisse positive opportunità proprio sul piano della sicurezza energetica, era stata alla base del “Libro verde” del 2000 della Commissione europea. Eppure, non molto dopo, nel documento (2003) “Energy Strategy of Russia for the period up to 2020”, del Ministro dell’energia russo, si delineavano chiaramente due obiettivi non proprio rassicuranti: “la politica energetica dello Stato deve essere orientata al passaggio dal ruolo di fornitore di risorse grezze al ruolo di membro sostanziale del mercato mondiale dell’energia” e “il ruolo del Paese nei mercati energetici globali determina in larga misura la sua influenza geopolitica”.

Insomma, le relazioni energetiche divenivano un tutt’uno con la politica estera del Paese: non a caso, Putin ha imposto al Paese ed all’industria energetica un ordine gerarchico che gli assegna una posizione di assoluto comando.

Occorreva ovviamente massimizzare i profitti dalle esportazioni di energia. Questo richiedeva la conclusione di partnership privilegiate, specie con Paesi europei (facendo perno sulla Germania) che costituivano i mercati di sbocco naturali.

Sul piano economico, si trattava, perciò, da un lato, di favorire la costruzione di gasdotti e la conclusione di contratti di lunghissimo periodo che avrebbero “ingessato” queste partnership e, dall’altro, ridurre i rischi di esposizione a Paesi di transito, a iniziare dall’Ucraina.

Quei contratti, inoltre, avrebbero garantito una stretta cooperazione con le industrie occidentali tale da superare l’arretratezza tecnologica di quella nazionale.

Tutto questo determina un paradosso: la sicurezza energetica per la Russia, a differenza di quel che significa nei Paesi importatori, vuol dire poter contare su una domanda certa di lungo periodo. Questo obiettivo era perseguito principalmente con la conclusione di accordi di lungo termine, della durata fino e oltre 30 anni, tra Gazprom e acquirenti esteri per lo più europei.

Il risiko dei gasdotti

Partiamo dal gasdotto Yamal – Europe, una serie di tubature lunghe 4500 km che parte dalla Russia e, in una sua diramazione, arriva in Austria traversando Ucraina e Slovacchia. Al confine austriaco si collega al Trans Austria Gas (TAG) che permette di raggiungere l’Italia tramite il valico di Tarvisio, in Friuli-Venezia Giulia.

I fornitori di gas dall’Africa sono due:

  • l’Algeria, tramite il gasdotto Transmed che sbarca a Mazara del Vallo (TP);
  • la Libia, tramite il gasdotto Greenstream che sbarca a Gela (CL).

Nel 2020 è entrato in attività il gasdotto Trans Adriatic Pipeline (TAP) che sbarca a Melendugno (LE) e trasporta gas estratto in Azerbaijan, tramite la Grecia. Il TAP è parte di una rete di trasporto che copre la distanza Grecia – Azerbaijan: parliamo del Trans Anatolian Pipeline (TANAP) e del South Caucasus Pipeline (SCP).

L’ultimo importante polo di importazione è quello nordeuropeo, in particolare dalla Norvegia e dall’Olanda. Il gas naturale arriva in Italia tramite il gasdotto Transitgas, collegato alla rete nazionale a Passo Gries, in Piemonte.

La politica di potenza perseguita da Putin, quindi, considerava l’energia come strumento di influenza geopolitica.

Funzionalmente, si trattava di legare l’Europa occidentale alle forniture russe e mettere sotto pressione i Paesi dell’ex orbita sovietica, Ucraina in primis.

Il primo tassello si chiama Nord Stream, un gasdotto che, attraverso il Mar Baltico, trasporta direttamente il gas proveniente dalla Russia in Europa occidentale, passando per la Germania, finalizzato ad aggirare l’Ucraina e indebolire i Paesi dell’Europa dell’est.

Ideato nel 1997, il progetto venne approvato e firmato dal Cancelliere Schroeder e Putin nel settembre 2005, una settimana prima delle elezioni che avrebbero portato al lungo cancellierato di Angela Merkel. Il gasdotto è entrato in esercizio nel novembre del 2011.

Contemporaneamente, va ricordata la scelta strategica di Gazprom, già alla fine degli anni ’80, di integrarsi a valle nella filiera metanifera, distribuendo il gas al consumatore finale anziché limitarsi a cederlo al confine. Il massimo di apertura di credito della Germania a Gazprom fu comunque l’incondizionato affidamento a quest’ultima di un quinto della capacità di stoccaggio di gas del Paese, che è il primo strumento per la sicurezza energetica, nell’erroneo convincimento che la Russia fosse un fornitore e un partner affidabile, che il gas non sarebbe mai diventato un’arma di pressione politica e che quest’ultima e business potessero rimanere divisi.

È nella stessa direzione che andava il progetto ideato da ENI insieme a Gazprom per realizzare il gasdotto South Stream che collegasse, via Mar Nero, i giacimenti russi a cinque Paesi europei. L’accordo venne concluso nel 2009 a Sochi (città sul Mar Nero, in Russia), tra Putin e Berlusconi.

Questo gasdotto rappresentava, inoltre, la reazione all’intento dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, col sostegno della Turchia, di avviare importazioni dall’area del Caspio attraverso un nuovo gasdotto denominato Nabucco. Il progetto South Stream fallì nel 2016 per l’opposizione della Commissione europea, che pretendeva giustamente che fosse conforme alle norme europee in termini di Third Party Access (TPA)[2]: se fosse stato realizzato quel gasdotto la nostra situazione sarebbe oggi decisamente peggiore.

La bocciatura del gasdotto fu anche la reazione europea contro l’annessione unilaterale della Crimea da parte della Russia. Stati Uniti, Unione Europea e altri Paesi adottarono sanzioni nei confronti della Russia non troppo diverse da quelle oggi in vigore, ma i loro effetti furono in gran parte bilanciati dal soccorso della Cina.

La reazione di Putin al fallimento del South Stream fu la decisione di costruire un gasdotto alternativo che collegasse Russia e Turchia – Turk Stream – avviato nel 2017 e in esercizio dal 2020 e avviare un altro progetto di gasdotto, il Nord Stream 2, che avrebbe raddoppiato la capacità di trasporto dalla Russia alla Germania ad oltre 100 miliardi di metri cubi, escludendo definitivamente l’Ucraina dal trasporto del gas europeo.

L’Italia ebbe una posizione ambigua, con un’iniziale opposizione del governo Renzi, ammorbidita quando venne rappresentata l’opportunità di assegnare interessanti appalti a SAIPEM. Il nostro Paese mostrò di non cogliere il senso della strategia perseguita da Putin sin dalla sua salita al potere e che avrebbe potuto far prefigurare, o almeno non escludere, l’invasione dell’Ucraina.

Per quanto di fatto completato, la messa in esercizio del gasdotto è stata bloccata il 22 febbraio 2022 dal cancelliere tedesco Olaf Scholz, quale una delle sanzioni nei confronti della Federazione Russa, in seguito all’inasprirsi della crisi russo-ucraina (l’invasione è del successivo 24 febbraio) e al riconoscimento da parte del Cremlino delle Repubbliche separatiste del Donbass.Il 1º marzo 2022 la società Nord Stream 2 AG ha dichiarato bancarotta a seguito delle sanzioni imposte sulle società russe a causa della guerra in Ucraina ed ha annunciato il licenziamento di tutti i dipendenti.

Miopia europea e nazionale

La prima riflessione è che molto di quanto è accaduto sia riconducibile alla sottovalutazione, da parte della classe politica e della stessa UE, di quanto contasse l’energia per le sorti di ogni Paese e della loro stessa sovranità. E, simmetricamente, sulle conseguenze che sarebbero potute derivare dal dipendere eccessivamente da altri Paesi.

Gli Stati europei avrebbero dovuto considerare l’energia un comune interesse, attivando un notevole spirito di solidarietà. Così non è stato.

E già c’era un errore di fondo: l’elevata fungibilità dei mercati petroliferi rendeva effettivamente poco praticabile per la Russia la loro manipolazione o il blocco delle forniture. Il mercato del gas, invece, per la sua bassa fungibilità, si prestava a manovre del tipo.Infatti, se per il petrolio è possibile, anche in tempi brevi, far riferimento ad altri fornitori (come per il carbone), non così è per il gas, essendo necessarie imponenti infrastrutture per il suo trasporto o la rigassificazione dallo stato liquido.

Per di più, ricordiamo che alla fine degli anni ‘80, scartati nucleare e carbone, non restava che il gas: scelta in qualche modo obbligata e indicata nei vari piani energetici nazionali per ridurre la dipendenza dai rifornimenti petroliferi dal Medio Oriente, che avevano portato a una sudditanza politica dai Paesi dell’area.

Così a quella sudditanza si è sostituita quella dalla Russia.

E fra tutti i Paesi europei, la più maldestra politica degli approvvigionamenti è stata quella della Germania, che ha puntato e fondato il proprio successo economico sul gas a basso prezzo fornito dalla Russia, così trovandosi oggi più esposta di chiunque altro alla crisi innescata dalla guerra in Ucraina e dall’uso del metano come arma da parte di Putin.

Vero è che, col nuovo millennio, si era aperta una fase di grande abbondanza di energia nel mondo, tale da generare l’illusione che la “sicurezza energetica” dovesse lasciare il passo alla costruzione di un mercato unico europeo, ovvero alla “convenienza economica” dell’energia, come emergeva dalle direttive europee di liberalizzazione dei mercati.

Si considerava l’energia una merce come tutte le altre, tale da non richiedere obblighi d’ordine generale e che i mercati sarebbero stati in grado di risolvere gli eventuali problemi. Da qui, la conclusione che non vi fosse più alcun valido motivo per sottrarre i sistemi energetici a regimi di piena concorrenza e di proprietà privata. Rendere i mercati efficienti era il compito delle politiche pubbliche.

Per quanto riguarda l’Italia, fu investito anche il settore del metano ove ENI operava come monopolio di fatto. Alla crescita della domanda e delle importazioni di metano contribuiva infatti e per lo più, la dotazione impiantistica esistente, gli investimenti (gli unici) in nuove infrastrutture realizzati da ENI.Tuttavia, vi era il diffuso convincimento che favorire l’entrata nel mercato di nuovi operatori (se non degli stessi fornitori) potesse aumentare la concorrenza a beneficio dei consumatori.

In tal senso va la scelta – unica in Europa – operata nel 2012 dal governo Monti, di imporre all’ENI la cessione di SNAM, che gestiva la rete di gasdotti sia esteri che nazionali, nel presupposto che sarebbero derivate fortissime riduzioni dei prezzi ai consumatori finali. Presupposto rivelatosi errato per varie ragioni:

  • anzitutto, perché a incidere sulle bollette era il costo della materia prima, fuori dal controllo di SNAM;
  • sottrarre all’ENI il settore della distribuzione del gas, equivaleva a ridurne la capacità negoziale sui mercati, circostanza che le varie crisi energetiche hanno dimostrato essenziale;
  • l’entrata di nuovi operatori nel nostro mercato del gas è stata molto limitata nei segmenti a maggior intensità di capitale (costruzione di rigassificatori o di gasdotti), per:
  • l’onere, appunto, degli investimenti;
  • l’incertezza e gli elevati rischi di mercato;
  • la redditività differita nel tempo;
  • la necessità di disporre di un forte potere negoziale nei confronti dei monopoli esteri da cui dovevano approvvigionarsi;
  • l’entrata è stata invece rilevante in quelli a bassa intensità, come il trading o la vendita finale di elettricità e gas, ove si conta una platea di centinaia di operatori che non si ritrova in nessun altro Paese europeo. Una politica che non ha favorito, quel che più conta, la promessa riduzione dei prezzi che risultano ampiamente superiori a quelli degli altri maggiori Paesi. Le attuali indagini dell’Antitrust su probabili speculazioni fatte da alcuni operatori, tra i quali, Iren, Iberdrola, E.On e Dolomiti, potrebbero confermare tale circostanza.

Riguardando le vicende in campo energetico dopo la salita al potere di Putin, sorprende il fatto che di fronte al moltiplicarsi delle sue aggressioni, alle interruzioni delle forniture all’Ucraina ed alla breve ma cruenta guerra in Georgia nel 2008, i Paesi europei non abbiano minimamente cercato di limitare la dipendenza energetica ma al contrario l’abbiano aumentata.

Nel 2006, all’indomani della rivoluzione arancione del 2004, la Russia interruppe le forniture all’Ucraina per obbligarla a rivedere le condizioni di prezzo rispetto a quelle definite fin dai tempi dell’Unione Sovietica. L’impatto fu avvertito nell’intera Europa, poiché i gasdotti che ai tempi traversavano l’Ucraina, trasportavano il 90% del gas russo verso l’Europa.

L’ennesimo scontro con l’Ucraina del 2009, quando Putin tagliò improvvisamente le forniture di gas, spinse il Cremlino ad uscire dall’Energy Charter Treaty[3] (Trattato sulla Carta dell’Energia). L’invasione russa della Crimea nel 2014 determinò una crisi metanifera, con rischi di contraccolpi sulle forniture all’Europa allora dipendenti per un terzo da quelle russe. È solo per la stagnazione economica seguita alla grande crisi finanziaria del 2008, il conseguente crollo della domanda di metano, il forte surplus d’offerta internazionale, che le conseguenze non sono state diverse e ben peggiori.

Le cose si ripeterono esattamente nel gennaio 2019, ma le preoccupazioni della Commissione e degli Stati membri erano ancora: completare i processi di liberalizzazione dei mercati; risolvere il problema degli ex monopolisti; ridurre l’importanza dei contratti a lungo termine ritenuti di ostacolo ad una piena concorrenza nei mercati, nell’illusorio presupposto che vi sarebbero state molte imprese desiderose di entrarvi. Dall’altro lato la Russia rafforzava il proprio potere concentrandolo in Gazprom.

Ma torniamo alla crisi finanziaria del 2008: questa determinò, da una parte, il crollo della domanda di gas con il conseguente surplus di offerta, dall’altra, la nascita di piattaforme negoziali del gas (di cui parleremo più avanti) che registravano (per la suddetta situazione) prezzi quotidiani (spot) inferiori a quelli dei preesistenti contratti a lungo termine.

Di lì la decisione europea di fissare i prezzi finali del gas su quelli spot, disincentivando i contratti a lungo termine: ai tempi questo penalizzava la Russia. La crisi energetica della seconda metà del 2021, causata da scarsità di gas per il crollo degli investimenti minerari e l’esponenziale aumento dei consumi nell’estremo oriente (Cina in testa), avviò l’esplosione dei prezzi spot e una rinnovata convenienza dei contratti a lungo termine.

La riduzione di forniture russe verso l’Europa da parte di Gazprom nella seconda metà del 2021, pur nel rispetto dei quantitativi fissati dei contratti, si poneva alcuni obiettivi: far ulteriormente rialzare i prezzi; fare pressione sulla comunità europea per attivare il gasdotto Nord Stream 2 da poco ultimato; aggravare la situazione dei mercati nazionali in ragione del basso livello di scorte; spingere i Paesi e le imprese europee a sottoscrivere di nuovo accordi di lungo termine.

Dal febbraio 2022, allo scontro sul terreno si somma quello in campo energetico: dopo l’invasione dell’Ucraina, i prezzi del gas aumentano di un quinto nel giro di pochi giorni, contagiando quelli dell’elettricità che i meccanismi di mercato, il c.d. System Marginal Price[4], collegano direttamente a quello del gas.

Amplificano la crisi quattro fattori preesistenti:

  • difficoltà, nel mondo, a sincronizzare l’economia con l’uscita, pur graduale, dalla pandemia;
  • la forte crescita della domanda di energia, specie di gas;
  • scarsità fisica di gas, per insufficiente capacità produttiva indotta dal crollo degli investimenti e aumento della domanda soprattutto in estremo oriente (come già visto);
  • la posizione dell’Agenzia dell’Energia di Parigi, secondo la quale non sarebbero stati necessari ulteriori investimenti nell’estrazione e distribuzione del gas, per il convincimento, errato, che la transizione energetica avrebbe spazzato via in breve tempo tutte le fonti fossili (che, invece, nel 2021 hanno ancora coperto l’82% dei consumi mondiali di energia, con un aumento delle rinnovabili di appena 0,2 punti).

Al rialzo dei prezzi hanno contribuito però altri due fattori contingenti: da un lato la riduzione delle forniture dalla Russia su tutti i gasdotti; dall’altro, il basso livello delle scorte in tutti i Paesi europei, per la negligenza dei Governi e della Commissione europea a monitorarne l’andamento. Paradossale la situazione della Germania dove Gazprom deteneva la proprietà di diversi siti di stoccaggio, guardandosi bene dall’alimentarli.

Qual è la situazione delle riserve di gas in Italia?

Quante riserve abbiamo? Impossibile dirlo: l’ultimo pozzo esplorativo è datato 2008 e le stime, quindi, scontano strumenti datati. Per conoscere i volumi effettivi, bisognerebbe aver esplorato ogni singola struttura geologica posta nel territorio italiano o, quanto meno, procedere con nuove prospezioni per avere stime più aggiornate.

Tre precisazioni importanti:

  • le riserve sono quella parte del gas estraibile e commercializzabile da un punto di vista tecnico, economico e normativo, secondo una percentuale variabile di convenienza: un sottoinsieme di tutto il gas che scoperto, che a sua volta è un sottoinsieme di tutto il gas presente nel sottosuolo;
  • al variare delle condizioni tecniche, economiche e normative, anche le riserve vanno ricalcolate, non foss’altro perché più i prezzi salgono più diventa conveniente sfruttare riserve che fino a prima erano considerate poco o per nulla redditizie;
  • con le tecnologie attuali è possibile produrre da campi che un tempo sarebbero stati abbandonati.

Al momento, secondo il Ministero della Transizione Ecologica (Mite) la situazione è la seguente:

  • riserve di gas certe (estraibili e commerciabili con una probabilità maggiore del 90%): 39,8 miliardi di metri cubi, di cui circa 22 miliardi onshore (sulla terraferma) e la restante parte in mare offshore);
  • riserve di gas probabili (estraibili e commerciabili con una probabilità maggiore del 50%): 44,5 miliardi di metri cubi;
  • riserve possibili (estraibili e commerciabili con una probabilità inferiore al 50%): 26,7 miliardi di metri cubi.

Se ne deduce che dal sottosuolo italiano potrebbe essere recuperata una quantità di gas che si aggira sui 70 miliardi di metri cubi: non molto, se pensiamo che al largo di Cipro Eni ha da poco scoperto lo stesso volume di gas in un solo giacimento e che il nostro consumo annuo si attesta intorno ai 70-75 miliardi di metri cubi.

Ma estrarre almeno 7 miliardi di metri cubi aggiuntivi (praticamente, un “secondo TAP”) non sarebbe poco nella situazione attuale. In Italia la produzione di gas ha raggiunto il suo picco storico nel 1994 quando copriva il 40% del fabbisogno nazionale. In quegli anni le estrazioni hanno toccato anche i 20 miliardi di metri cubi all’anno, ma con il tempo si sono progressivamente ridotte, passando dai 9 miliardi del 2008 ai quasi 7 del 2015 per finire con i 3,5 miliardi del 2021. Nel frattempo, tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, le importazioni dall’estero sono cresciute, come abbiamo visto.

Se l’estrazione di gas è in diminuzione, il motivo principale è l’esaurimento dei vecchi giacimenti, mentre lo sfruttamento delle riserve è bloccato da vincoli ambientali sempre più severi e in alcuni casi dalle lungaggini degli iter autorizzativi.
In particolare:

  • la legge n.133/2008 vieta la “prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi nelle acque del golfo di Venezia” per il rischio di “subsidenza” (sotto il fondale del nord Adriatico si trovano 30 miliardi di metri cubi o più);
  • a seguito del disastro della Deepwater Horizon, avvenuto nel 2010 nel golfo del Messico, il Governo Berlusconi stabilì il divieto di perforazione ed estrazione di gas all’interno di aree marine e costiere protette e nelle zone marine poste entro 12 miglia “dal perimetro esterno delle suddette aree marine e costiere”. Due anni dopo, il Governo Monti ha esteso questo divieto “lungo l’intero perimetro costiero nazionale” (così, ad esempio, i pozzi Giulia 001 e Benedetta 001, al largo di Rimini, restano fermi). Queste misure hanno suscitato varie critiche da parte egli esperti: il disastro del 2010 riguardava lo sfruttamento di un pozzo di petrolio, mentre in Adriatico si estrae praticamente solo gas metano.

Restano i giacimenti di Cassiopea e Argo, al largo di Gela, ancora in stand by ma che potrebbero diventare operativi entro la prima metà del 2024 (salvi eventuali problemi autorizzativi). In questi due giacimenti, dati in concessione ad Eni, sono stimate riserve per circa 10 miliardi di metri cubi di gas. In aggiunta, ci sono promettenti giacimenti nel medio Adriatico. In conclusione: la produzione nazionale è in stand by.

Perché il prezzo dell’elettricità dipende dal gas?

 Gli aumenti degli ultimi tempi hanno perlopiù a che vedere con la decisione della Russia di sospendere le forniture di gas all’Europa tramite il gasdotto Nord Stream, cominciando ad accampare poco credibili interventi di manutenzione. Non tutto il gas che utilizziamo in Europa è scambiato sulla piattaforma TTF (Title Transfer Facility, della quale diremo subito dopo), ma l’indice influenza i prezzi su cui si accordano direttamente le aziende produttrici e distributrici.

In Italia, il prezzo dell’elettricità sostenuto dalle famiglie dipende dall’offerta sottoscritta con il proprio fornitore. Nel regime tutelato, il prezzo del kilowattora è stabilito dall’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera) ogni tre mesi e rimane fisso. Nel mercato libero, il prezzo viene stabilito dai singoli fornitori.  Adesso ci si aspetta che entrambi crescano, il primo nella modifica della tariffa di ottobre, il secondo da subito.

Il motivo è che il fattore determinante del prezzo dell’elettricità è proprio il prezzo del gas, perché oltre la metà dell’energia elettrica nazionale si produce nelle centrali a gas, che hanno quindi il potere di stabilire il prezzo. Ovviamente, se il prezzo a cui le centrali acquistano gas naturale si impenna, tale aumento va a riversarsi anche sull’elettricità in generale. In teoria, le fonti rinnovabili potrebbero fare da calmiere poiché non dipendono dal gas. Tuttavia, in seguito alla siccità che ha colpito il Paese quest’anno, la produzione di energia idroelettrica è diminuita, portando il totale dell’energia elettrica prodotta tramite fonti rinnovabili al 30% della domanda. Troppo poco per combattere l’impennata del gas.

La soluzione di cui si sta parlando in questo momento a livello europeo è quella di “disaccoppiare” il prezzo del gas dal prezzo dell’elettricità. Invece che considerare l’energia elettrica come un tutt’uno, l’idea è di consentire a ogni fornitore di stabilire il proprio prezzo, in base alle spese di produzione.

Dato che le fonti rinnovabili, come l’eolico, il fotovoltaico e l’idroelettrico non hanno i costi delle centrali a gas, potrebbero offrire un prezzo significativamente inferiore per l’elettricità. Al Meeting di Rimini il presidente del Consiglio Mario Draghi ha detto che “questo legame che c’è tra il costo dell’energia elettrica prodotta con le rinnovabili, e quindi acqua, sole, vento, e il prezzo massimo del gas ogni giorno è un legame che non ha più senso”.

Vediamo meglio questo TTF

 Avevamo ricordato la decisione europea, in tempi di surplus dell’offerta, di fissare i prezzi finali del gas su quelli spot, disincentivando i contratti a lungo termine. L’indice dei prezzi del gas, basato su quelli spot, si forma sulle piattaforme “virtuali” di scambio, gli “hub”, il principale dei quali, in Europa, è il TTF. Il TTF (Title Transfer Facility) è un mercato virtuale per lo scambio del gas naturale con sede in Olanda ed è uno dei principali mercati di riferimento per lo scambio del gas in Europa, in cui si vendono e acquistano gas a prezzi “spot” e futures su gas, ovvero contratti che stabiliscono la vendita di una certa quantità di gas in una data prestabilita.

Quando si parla di prezzo spot, si considera il prezzo del gas consegnato a breve termine, generalmente il giorno successivo (Day-Ahead tecnicamente), indicizzato a TTF. In sostanza il mercato spot è quello in cui lo scambio del prodotto (in questo caso il gas) avviene con consegna pressoché immediata, il giorno dopo o pochi giorni dopo.

I prezzi future, o forward, riguardano invece una consegna più lontana nel tempo, scontano quindi una previsione a lungo termine e possono essere rinegoziati più volte prima della consegna. I contratti future rappresentano quindi un accordo legale tra due parti per la negoziazione in una data futura. Questi prezzi sono quelli che vengono utilizzati come riferimento per le offerte di fornitura gas a prezzo fisso. Il TTF rappresenta una forma di investimento non così diversa dagli investimenti in titoli azionari e, come ogni indice di Borsa, il prezzo del gas è influenzato profondamente dal contesto economico e politico mondiale, nonché dalla speculazione.

Il gas naturale è un bene fungibile, uguale indipendentemente dal produttore ed è oggetto di scambio presso le principali borse mondiali, come il TTF appunto, o come il NYMEX (New York Mercantile Exchange) o l’ICE (Intercontinental Exchange). Ogni Paese ha comunque un proprio hub virtuale del gas: oltre al TTF olandese e al PSV italiano, esiste il NCG VTP tedesco, il NBP britannico e il PEG francese.

Attraverso questa piattaforma avviene la compravendita del gas tra i più grandi operatori e trader di settore, produttori e fornitori, che rispettivamente vendono e acquistano il gas metano.I fornitori del mercato italiano acquistano il gas naturale per poi rivenderlo ai loro clienti finali: aziende e utenti domestici. Il prezzo di acquisto, strettamente connesso all’indice TTF, è la base di partenza a cui si aggiunge il margine del fornitore, per arrivare al prezzo di offerta gas sul mercato libero.

La sede del TTF è situata in Olanda: l’indice quindi è spesso chiamato “Dutch TTF gas price”. Nasce come hub inizialmente molto correlato al fisico e come mercato subregionale da cui transitano il gas olandese, quello proveniente dalla Norvegia e consistenti volumi di GNL.

Per i prodotti energetici, come il gas e l’energia elettrica, non c’è un vero e proprio mercato, ossia un posto fisico di scambio: il TTF, così come il PSV italiano, è considerato un punto virtuale (hub). Questo non esclude il fatto che effettivamente il gas venga scambiato tra le reti delle nazioni europee, interconnesse tramite metanodotti.

L’indice del TTF viene pubblicato regolarmente da una società di primaria importanza del settore, ICIS Heren. Il valore del TTF può essere espresso in €/MWh, l’unità di misura convenzionale di tutte le fonti di energia, oppure in €/Smc, così come in bolletta, con un’opportuna conversione. Il valore dell’indice TTF mensile viene calcolato facendo la media aritmetica delle quotazioni giornaliere riferite al mese di fornitura: ad oggi è disponibile il TTF medio di settembre, pari a 2,019 €/Smc (188,69 €/MWh).

Una piccola ma importante digressione su un punto da tener presente: con la Russia che chiude, il flusso del gas in Europa tende a invertirsi:

  • da Est/Ovest a Ovest/Est. E il più importante punto d’ingresso da Ovest è, anche per capacità storica di rigassificazione (Gate Access to Europe, GATE), l’Olanda. Quando il flusso veniva prevalentemente da Est, in Olanda c’era abbondanza di spare capacity sia in tubo che in terminale. Adesso la capacità è saturata e questo crea tensioni sui prezzi;
  • da Nord/Sud a Sud/Nord, specie per l’Italia, date le maggiori importazioni dai Paesi africani e tramite il TAP. Questo richiederà investimenti urgenti in nuove tratte di gasdotti e stazioni di compressione, per rifornire adeguatamente il più energivoro nord del Paese.

Il problema della volatilità del prezzo del gas non è, quindi, solo legata alla speculazione ma, soprattutto, alla riduzione dei volumi disponibili ed alla insufficienza delle infrastrutture di trasporto. Sono comunque in arrivo espansioni di capacità: l’espansione del GATE, con l’avvio del nuovo terminale GNL (Eeemshaven), potrebbe essere sufficiente a riallineare prezzi e volatilità.

Il pricing

Fino agli anni 2009-10, il modello prevalente di pricing nel mercato del gas erano “contratti a lungo termine contenenti prezzi indicizzati sulla base di medie mobili a quelli dei prodotti petroliferi e clausole take-or-pay”. In seguito, questo modello inizia a indebolirsi a causa di diversi fattori (tra i quali, le pressioni dei regolatori) che spingono ad una revisione del sistema dei prezzi verso quella che viene definita gas-to-gas competition[5] e introducendo nelle formule di prezzo riferimenti alle quotazioni agli hub.

Un nuovo sistema di prezzi orientato al breve termine che ha funzionato per diversi anni in un contesto caratterizzato prevalentemente da sovrabbondanza di offerta e che ha raggiunto il suo culmine nel 2020 con la pandemia, quando le quotazioni hanno toccato i minimi storici. Il meccanismo inizia a mostrare limiti dal 2021, quando l’economia torna a crescere e con essa i consumi di gas: gli operatori vengono colti impreparati dal lato degli approvvigionamenti e le quotazioni spot iniziano una corsa al rialzo senza freni.

Il mancato adeguamento dell’offerta alla domanda pesa inesorabilmente sull’andamento dei prezzi anche alla luce della crescente correlazione tra prezzi asiatici ed europei (i paesi asiatici sono disposti ad accettare prezzi maggiori, per la fame di energia e problemi di approvvigionamento) e della forte dipendenza del sistema gas continentale delle importazioni via gasdotto (che hanno coperto il 67% del consumo).

Il forte declino della produzione europea di gas priva il sistema di una flessibilità utile a fronteggiare le oscillazioni stagionali della domanda e rende il ricorso agli stoccaggi ancora più prezioso nei mesi invernali. Dal canto loro, i siti di stoccaggio hanno subito un rallentamento delle iniezioni, dapprima, per una primavera fredda che ha dirottato ai consumi volumi destinati a essere stoccati e, in seguito, per la ritrosia degli operatori a iniettare gas data l’estrema volatilità dei prezzi.

Sul fronte delle importazioni dalla Russia, dal mese di settembre Gazprom ha ridotto significativamente le esportazioni verso l’Europa, dando priorità alle forniture al mercato interno, contrariamente al consueto aumento stagionale dei flussi verso l’Europa.

Unico fornitore di gas russo via gasdotto all’Europa, Gazprom, ha sempre affermato di aver continuato a rispettare i propri impegni contrattuali a lungo termine: questo non le ha impedito di ridurre di molto la propria offerta sul mercato spot. Tra le ragioni di tale scelta, questioni geopolitiche.

Infatti, ad un quadro continentale complicato si aggiunge la concorrenza della domanda asiatica: negli ultimi anni, la domanda di gas in Asia è stata particolarmente vivace (attraendo) circa il 70% dei volumi di GNL (il continente è ancora servito da una rete limitata di gasdotti), legati nella maggior parte dei casi a contratti con scadenza nel medio-lungo periodo e prezzi indicizzati al petrolio.

Quando il restante 30% offerto sui mercati spot diventa essenziale per la copertura della domanda sia in Asia sia in Europa, la concorrenza si accende e può determinare violenti rialzi dei prezzi, come avvenuto tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021, quando un’ondata di freddo intenso che investì le regioni asiatiche settentrionali causò un primo forte rialzo dei prezzi nell’area. In seguito, è stata soprattutto l’uscita dal lockdown di una Cina affamata di energia ad alimentare la domanda asiatica di GNL. La decisa volontà di acquistarlo a qualsiasi prezzo ha causato pesanti ripercussioni sui mercati europei.

Lo 80% del gas consumato in Europa è prezzato in riferimento (diretto o indiretto) ai valori a breve termine e solo meno del 20% è rimasto indicizzato al petrolio. I contratti a lungo termine pesano per circa lo 80% sul totale dell’approvvigionamento​ dell’UE (Commissione europea 2021), ma di tali contratti non si conoscono nel dettaglio le formule di prezzo (alcune sono rimaste esclusivamente indicizzate al petrolio e derivati sulla base di medie mobili come per le importazioni dall’Algeria. Nella maggior parte dei casi sono applicate formule ibride, con crescenti riferimenti ai prezzi degli hub).

Il che trova conferma sia nell’andamento del prezzo BAFA (una media tra i prezzi del gas importato in Germania sotto le varie formule), significativamente inferiore negli ultimi mesi ai prezzi all’hub, sia nell’ultimo rapporto trimestrale dell’osservatorio della Commissione europea sul mercato del gas, che conferma prezzi alla frontiera dei contratti di importazione a lungo termine minori di quelli spot.

Tutto questo dovrebbe portare ad un’approfondita riflessione sull’efficienza degli attuali meccanismi di formazione dei prezzi incentrati sui valori spot. Se non altro per individuare soluzioni equilibrate atte a ridurre la volatilità dei prezzi ed esborsi tanto elevati per i consumatori. Tanto più che si rischia di trovarsi frequentemente in situazioni di scarsità di offerta di una fonte che nel lungo termine si vorrebbe abbandonare, ma che risulta ancora non sostituibile per un tempo indeterminato.

La difficile ricerca di una soluzione a livello europeo

Il rischio “Russia” ha spinto l’Europa in cinque direzioni:

  • inasprimento delle sanzioni. Il limite è che sono state decise per ragioni squisitamente politiche, senza valutare a fondo praticabilità e conseguenze, come abbiamo evidenziato nell’articolo di luglio;
  • ricerca di forniture di gas alternative a quelle russe (ed è stata avviata un po’ dovunque una “diplomazia del metano” che ha portato a incontri con vari paesi produttori quali Algeria, Azerbaijan, Qatar) o fornitori prossimi venturi come Congo, Angola, Mozambico, Egitto, Israele. Questo ha determinato una situazione di concorrenza intra-europea che si sarebbe potuta evitare col coordinamento della Commissione. Peraltro, non è credibile ritenere che in giro per il mondo vi siano quantità illimitate di gas da acquistare e, molto spesso, ad essere satura è la capacità di trasporto. D’altra parte, la crisi energetica del 2021 era esattamente il riflesso di questa scarsità di capacità estrattiva e di trasporto. C’è poi un’altra questione che merita attenzione: i contratti a lungo termine in vigore tra Gazprom e le imprese europee, impongono al compratore di ritirare il gas ovvero di pagarlo comunque (la c.d. clausola del “Take Or Pay”). Nel sottoscrivere nuovi contratti di acquisto di gas, si corre il rischio di pagare sia i metri cubi non ritirati dalla Russia che quelli acquistati dai nuovi fornitori;
  • proposta di interventi volti a ridurre la dipendenza dal gas russo attraverso il contenimento dei consumi, lo sviluppo di fonti energetiche alternative (segnatamente rinnovabili) e la ricerca di altri fornitori. In questo solco, nel marzo 2022, è stato presentato il progetto REPowerUE, in cui si sostiene la possibilità di ridurre, entro la fine dell’anno, le importazioni di gas russo di due terzi (quindi, circa 100 mld di metri cubi, se nel 2021 ne erano stati importati 155 mld). Se i mercati avessero creduto a questi progetti, i prezzi del gas si sarebbero ridotti in vista del formarsi di un enorme eccesso di offerta: tuttavia così non è stato. In conseguenza, nella versione finale del piano (maggio 2022) ci si è limitati ad aggiungere il generico intendimento di liberarsi del gas russo entro il 2027;
  • piano di razionamenti come ultima possibilità. Proprio l’incertezza circa la possibilità di sostituire, entro fine anno, i 2/3 del gas russo, come previsto nel citato piano REPowerEU, ha spinto la Commissione – per non lasciare nulla di intentato – a predisporre un piano di razionamenti. Il 20 luglio ha presentato un primo piano denominato “Save Gas for a Safe Winter” (SGSW) teso a ridurre obbligatoriamente i consumi di gas in tutti i Paesi del 15%. Proprio tale previsione ha fatto sì che il piano venisse rigettato dalla gran parte dei Paesi europei. Il successivo 26 luglio, il Consiglio europeo ha così varato un piano totalmente diverso, che prevede tagli su base volontaria, nonché esenzioni e deroghe per tener conto delle specificità dei singoli Paesi. Con questo piano si arriverebbe un taglio dei consumi di circa il 7%;
  • l’introduzione di un tetto ai guadagni per i produttori di energia elettrica non da fonte gassifera (i cosiddetti inframarginal power generators[6]).

Su impulso dell’Italia, ha altresì preso forma la proposta di fissare un “price cap”, un tetto ai prezzi internazionali del gas: sostanzialmente, la richiesta di uno sconto. Sul tale misura non c’è ancora accordo, nonostante le “aperture” di diversi Paesi (tra i quali, la Germania): tutto è stato rinviato alla riunione del Consiglio europeo (Capi di Governo) di metà ottobre.

La stessa Commissione ha peraltro ammesso che l’imposizione di un price cap al gas russo “potrebbe implicare l’attivazione della clausola di forza maggiore insita nei contratti esistenti di fornitura”, legittimando la possibilità di interruzione delle forniture da parte della Russia.

Subito dopo, infatti, dal forum internazionale di Vladivostok, emblema della potenza russa che guarda all’Asia per sganciarsi dalla dipendenza tecnologica e finanziaria occidentale, Putin in persona ha confermato che qualsiasi imposizione di un price cap determinerebbe l’invalidità di qualsiasi contratto siglato tra le parti.

Ma chi è pro e chi contro alla imposizione di un price cap?

Più o meno 15 paesi, guidati dall’Italia, vogliono un price cap generalizzato; 3 solo sul gas russo (Paesi Baltici); 3 (tra cui la Germania) solo se economicamente sostenibile nel lungo termine e senza difficoltà per i paesi più deboli; 5 contrari o neutrali. Fattivamente, l’applicazione di un cap generalizzato trasforma l’intera questione in un’enorme operazione geopolitica dell’Unione Europea nei confronti dei paesi produttori.

Come abbiamo già detto, bisognosi come siamo di forniture alternative a quelle russe, come potrebbe Bruxelles convincere a queste condizioni i propri partner ad aumentare le spese di produzione, esplorazione e costruzione di nuove infrastrutture per l’export e, quindi, ad assumersi importanti rischi economici, in una fase di estrema instabilità dei prezzi, per soddisfare la domanda europea e sostituire pienamente le importazioni dalla Russia?

Piuttosto che concentrarsi unicamente verso l’esterno, Commissione e Consiglio avrebbero dovuto agire anche verso l’interno dell’Europa, con un’azione volta a coordinare le decisioni dei singoli paesi, così da evitare contraddizioni, inefficienze, costi addizionali. Ogni Paese si è mosso in modo isolato: unicamente attento ai propri interessi senza alcun raccordo con quel che decidevano gli altri.

Si arriva così alla attuale decisione della Germania di stanziare 200 miliardi di € sul Fondo di stabilizzazione e investimento creato durante la crisi del Covid (quindi, formalmente, compatibile con le severe regole di bilancio tedesche), per ridurre l’onere delle bollette sull’industria e le famiglie tedesche.

Berlino ha risposto alle pressioni della BDI, la Confindustria tedesca ed ai segnali che provenivano dai Länder, soprattutto in quelli dell’Est, dove sono ricominciate manifestazioni spontanee di protesta e dove AfD, il partito neonazista, è tornato a salire rapidamente nei sondaggi. Al punto che qualche settimana fa, la Ministra degli Esteri, la verde Annalena Baerbock, ha messo in guardia dalla possibilità di “rivolte sociali”. Eppure, il Presidente del Consiglio Mario Draghi, aveva ammonito che “di fronte ai pericoli comuni della nostra epoca, non possiamo dividerci in base ai margini di manovra dei nostri bilanci, c’è bisogno di solidarietà”.

La Germania ha fatto il contrario.

Sulla scorta dell’antico timore dell’inflazione (Repubblica di Weimar) e dei guasti di una miope politica energetica, ha rinnegato le politiche di austerità (quelle di lacrime, sangue e bilanci in pareggio) e si è convertita alla spesa, mettendo a nudo una semplice realtà semplice e drammatica: in Europa c’è chi può permettersi di gettare miliardi nell’economia per sostenere famiglie e aziende e chi no.

Come ammette Joschka Fischer (già Ministro degli affari esteri della Germania e vicecancelliere nei due governi di Gerhard Schröder dal 1998 al 2005) “la Germania sembra seguire lo stesso schema della pandemia: accetterà la solidarietà quando toccherà con mano che il mercato interno è a rischio di saltare e con esso tutta l’economia tedesca”.

Ma non bisogna essere ipocriti, perché dal piano tedesco qualche beneficio abbiamo tratto anche noi: l’industria tedesca non si fermerà (l’Italia è tra i principali fornitori), il mercato ne ha subito preso atto e i rendimenti sui titoli di Stato italiani hanno iniziato a scendere. Perciò la BCE potrà alzare i tassi meno del previsto e più lentamente.

A parere di chi scrive, un price cap potrebbe funzionare davvero solo ad alcune condizioni:

  • se decidessimo un acquirente unico (es. la Commissione per tutti);
  • se potessimo controllare la domanda di gas, portandola a livelli compatibili con il prezzo indicato;
  • se emergesse chiara e concreta la decisione di creare un’unica rete europea per il trasporto del gas, unificando le reti nazionali, così da ottimizzare i flussi e rafforzare la capacità di sviluppo;
  • se il price cap riguardasse tutte le forniture, non solo quelle dalla Russia (nel qual caso, sarebbe solo un’ulteriore forma di sanzione). Ma quale Paese sarebbe disposto ad investire per aumentare l’estrazione di gas e realizzare o migliorare le infrastrutture necessarie, sotto la condizione di un price cap? Allora, meglio sarebbe parlare di un price cap non assoluto, ma “dinamico”, che faccia riferimento alla media dei prezzi in un determinato periodo.

Resta il fatto che un price cap è praticabile solo per le importazioni via tubo. Il GNL via nave può comunque andare altrove, ove il prezzo non sia ritenuto conveniente. Quel che andrebbe fatto invece, è imporre un cap al prezzo dell’elettricità prodotta con fonti diverse dal gas, per renderlo meno dipendente dalle oscillazioni della fonte fossile. Ove tutto ciò non avvenisse, resterebbe alla Russia l’arma del ricatto consistente nel blocco delle forniture. In effetti, quel che la Russia ha finora perso in termini di volumi, è stato più che compensato dall’aumento del prezzo.

Inoltre, le minori vendite verso l’Europa sono state in parte sostituite da più esportazioni, specie di petrolio, verso l’Asia. Tuttavia, tre elementi vanno tenuti in considerazione:

  • un sostanziale aumento dell’esportazione di gas verso la Cina è subordinato alla costruzione di un nuovo gasdotto, possibile solo nel lungo termine;
  • la Cina sostiene formalmente la Russia, ma difficilmente la seguirà in una guerra economica, restando l’occidente il proprio principale partner;
  • l’altro grande consumatore asiatico, l’India, non si è associato alle sanzioni, non volendo mettere a rischio i rifornimenti energetici e, con essi, il progetto del Governo Modi di far uscire una fascia quanto più ampia della popolazione dalla povertà. Le pressioni delle democrazie occidentali sulla democratica India sono tuttavia continuate. Non si può escludere che il Paese possa infine accedere alla richiesta di un price cap, dietro adeguate compensazioni occidentali.

E poi un possibile paradosso: se guardiamo alle rinnovabili, specie alle tecnologie eoliche e solari, rileviamo che sono quasi interamente controllate dalla Cina. Stiamo attenti dal passare da una dipendenza all’altra.

Come anticipato dalla Commissaria europea all’Energia, Kadri Simson, durante la conferenza stampa finale a Praga dopo la riunione informale dei ministri dell’Energia dell’Unione europea del 18 ottobre, la Commissione europea, dopo mesi di pressioni da parte di molti Paesi, ha proposto un meccanismo di correzione dei prezzi del gas sul mercato, da discutere nel Consiglio europeo del 20 e 21 ottobre.

All’esito del Consiglio, le decisioni finali sono state le seguenti:

  • acquisto congiunto di gas, tramite la creazione di un consorzio europeo di aziende (cui parteciperebbero obbligatoriamente le imprese nazionali), per soddisfare almeno il 15% dei target di stoccaggio di ogni Paese. Oltre tale soglia, possibilità comunque di procedere ad acquisti congiunti volontari;
  • accelerazione dei negoziati con partner affidabili, sfruttando il peso dell’Unione sul mercato e facendo pieno ricorso alla piattaforma dell’UE per l’energia (aperta anche ai Balcani occidentali e ai tre Paesi associati del c.d. “partenariato orientale”: Georgia, Moldavia e Ucraina);
  • un nuovo parametro di riferimento complementare entro l’inizio del 2023 che rifletta in modo più accurato le condizioni del mercato del gas;
  • un “corridoio dinamico” (price cap), di carattere temporaneo, per i prezzi d’acquisto di gas naturale, onde limitarne da subito i rialzi eccessivi. Il Consiglio ha ritenuto “possibile stabilire un valore centrale per questo corridoio e rivederlo regolarmente, tenendo conto di parametri di riferimento esterni (ad esempio, i prezzi del greggio)”, anche consentendo “fluttuazioni (ad esempio del 5%) intorno al valore centrale all’interno del corridoio”. In sintesi, viene previsto un minimo e un massimo del prezzo in modo da ridurre i costi, senza però mettere a rischio le forniture;
  • un tetto temporaneo al prezzo del gas europeo utilizzato per la produzione di energia elettrica, prevenendo allo stesso tempo l’aumento del consumo di gas e tenendo anche conto degli impatti in termini di finanziamento e distribuzione sui flussi oltre i confini dell’UE;
  • miglioramenti nel funzionamento dei mercati dell’energia per accrescere la loro trasparenza, alleviare lo stress di liquidità ed eliminare i fattori che amplificano la volatilità dei prezzi del gas, assicurando anche il mantenimento della stabilità finanziaria;
  • velocizzazione delle procedure autorizzative per le energie rinnovabili e le reti, anche con misure di emergenza;
  • misure di solidarietà energetica in caso di interruzioni dell’approvvigionamento di gas a livello nazionale, regionale o dell’Unione, in assenza di accordi bilaterali di solidarietà;
  • maggiori sforzi per risparmiare energia;
  • mobilitazione degli strumenti pertinenti a livello nazionale e dell’UE, per proteggere famiglie e imprese, in particolare i più vulnerabili delle nostre società.

Il Consiglio europeo ha inoltre:

  • ribadito la necessità di incrementare gli investimenti nell’efficienza energetica, nelle infrastrutture energetiche adeguate alle esigenze future, compresi le interconnessioni e lo stoccaggio, e nelle tecnologie innovative per le energie rinnovabili;
  • invitato la Commissione ad accelerare i lavori sulla riforma strutturale del mercato dell’energia elettrica, inclusa una valutazione d’impatto ed ha chiesto ulteriori progressi verso la realizzazione di una piena Unione dell’energia, con il duplice obiettivo della sovranità energetica e della neutralità climatica a livello europeo.

 Provvedimenti a livello nazionale

Gli aumenti incidono direttamente sui prezzi finali per famiglie e imprese. Oltre ai vari Decreti tesi a ridurre l’impatto degli aumenti (per una spesa superiore a 50 mld €, tra le più alte in Europa, recente provvedimento della Germania a parte), il Governo italiano ha previsto la proroga dei c.d. “servizi di tuteIa”: si tratta di quelle forniture di energia elettrica e gas naturale a condizioni economiche (prezzo) e contrattuali definite dall’ARERA, destinate ai clienti finali di piccole dimensioni (quali famiglie e microimprese) che non abbiano ancora scelto un venditore nel mercato libero.

La normativa aveva infatti previsto il progressivo passaggio dal mercato tutelato a quello libero, prevedendo le date dalle quali i servizi di tutela di prezzo non sarebbero state più disponibili: così, per la fornitura di energia elettrica delle piccole imprese e delle microimprese con potenza impegnata superiore a 15 kW, la tutela di prezzo è terminata il 1° gennaio 2021. Tuttavia, per quelle che non avessero ancora scelto un’offerta dal mercato libero, ARERA ha definito un meccanismo graduale di uscita dalla tutela di prezzo, strutturato su più fasi. Nella seconda fase, dal 1° luglio 2021 e per tre anni, si prevede che il Servizio a Tutele Graduali sia erogato da venditori selezionati attraverso procedure concorsuali, garantendo sempre la continuità della fornitura.

Per le altre microimprese il superamento della tutela di prezzo per l’elettricità è fissato al 1° gennaio 2023, data in cui terminerà anche la tutela per le forniture di gas delle famiglie. Il termine della maggior tutela elettrica per le famiglie è invece previsto entro il 10 gennaio 2024, scadenza entro la quale verrà assegnato il servizio a tutele graduali ai clienti domestici elettrici che in quel momento non avessero ancora scelto un fornitore del mercato libero, garantendo la continuità della fornitura.

Tuttavia, occorre considerare che la situazione in esame non è destinata a risolversi nel brevissimo periodo. Gli aiuti possono avere a questo punto due conseguenze paradossali: da un lato, sostengono i consumi perché il prezzo dell’energia viene artificialmente ridotto; dall’altro, gli aiuti operano in modo indifferenziato, cioè danno a tutti i medesimi benefici indipendentemente dalle condizioni economiche, con la conseguenza di acuire le disuguaglianze sociali.

Quello che possiamo notare oggi è che nel primo semestre dell’anno le complessive importazioni di gas hanno registrato un leggero aumento, con la quota russa ridotta a 8 mld di metri cubi, rimpiazzata da un amento dei prelievi da Algeria, Nord Europa, Azerbaijan e dal gas liquido proveniente in gran parte dagli Stati Uniti.

Ma con la Russia che decide di sospendere o, quanto meno, ridurre fortemente le proprie forniture, la situazione per l’Italia (che dipende per 1/5 dal gas russo) potrebbe essere la seguente:

  • le disponibilità complessive si ridurrebbero quindi di un 20%, essendo limitato il ricorso ad altre fonti di approvvigionamento. Resta fermo che la rilevanza del calo va valutata in relazione alla dinamica della domanda nei vari settori (ad oggi: flessione nell’industria – molte imprese stanno riducendo o fermando addirittura la produzione e non riuscendo a reggere i costi dell’energia -; limitata flessione nel residenziale; crescita nella generazione elettrica);
  • per compensare i circa 5 mld di metri cubi mancanti, risulta fondamentale la consistenza delle scorte. SNAM ha avuto l’incarico di provvedervi ed è riuscita a trovare gas da produttori del Nord Europa, portando il tasso di riempimento dei siti di stoccaggio vicino al 90 % fissato dal Governo. Tuttavia, la decisione (soprattutto nostra e dei tedeschi) di comprare gas a qualunque prezzo pur di riempire gli stoccaggi, ha fatto ulteriormente lievitare il prezzo del gas. Questo è il motivo per cui, da qualche mese, il gas costa più che in Asia. Ma la coperta è corta per tutti: Paesi come il Pakistan e il Bangladesh, non potendo pagare i nostri prezzi, sono rimasti praticamente senza combustibile;
  • in aggiunta, è necessario un piano di razionamento “credibile”;
  • la possibilità di una recessione almeno biennale non può essere esclusa.

 Conclusioni

Non v’è dubbio che l’aggressione russa all’Ucraina abbia fatto deflagrare una situazione già tesa sul piano delle forniture. Sul piano diplomatico non si registrano ancora progressi.

“Il nostro obiettivo è fermare lo spargimento di sangue il prima possibile”, aveva detto Erdogan alla vigilia della conferenza tra i leader di diversi Paesi asiatici, tenutasi in Kazakhstan ad Astana il 13 ottobre. Ma nell’incontro bilaterale di un’ora e mezza che Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan hanno avuto, si è parlato di scambi commerciali, questioni politiche e forniture di gas. “La discussione sul rilancio delle relazioni commerciali ed economiche ha esaurito tutto il tempo”, ha spiegato al termine del colloquio Jurij Ushakov, consigliere del Cremlino per la politica estera.

Nel corso dell’incontro – e questa è la parte del colloquio resa pubblica – il Presidente turco è tornato a proporre di spostare sul Mar Nero il centro degli scambi energetici tra Russia ed Europa, creando un grande hub del gas in Turchia. La Turchia, ha detto Putin corteggiando il proprio interlocutore, “è diventata la rotta più affidabile per fornire gas all’Europa”. Come se ormai si fosse rassegnato alla perdita dei due Nord Stream, sul Baltico, il Presidente russo ha detto che la costruzione di un nuovo gasdotto in territorio turco permetterebbe di stabilizzare i prezzi: “Intendiamo fare della Turchia il più grande hub di gas al mondo”, ha affermato Putin rivolgendo l’offerta ai mercati europei, “se sono interessati. Oggi i prezzi sono alle stelle. Potremmo facilmente riportarli alla normalità, indipendentemente dalla politica”.

Non sembra però credibile pensare che il Cremlino si aspetti di discutere seriamente di hub energetici in Turchia finché è in corso una guerra. Sicuramente il mercato resterà in tensione ancora per alcuni anni, con pressione al rialzo dei prezzi, fino a quando si ricostituirà una adeguata produzione a livello mondiale. Ma a quel punto potrebbe seguire un eccesso di offerta per due ragioni:

  • il moltiplicarsi degli investimenti per accrescere la capacità logistica e infrastrutturale;
  • il drastico calo della domanda europea fissato nel REPowerEU della Commissione nella misura del 40% entro il 2030 e di quella mondiale per effetto delle politiche climatiche e della forte crescita delle rinnovabili.

Come anticipato dalla Commissaria europea all’Energia, Kadri Simson, durante la conferenza stampa finale a Praga dopo la riunione informale dei ministri dell’Energia dell’Unione europea, al momento in cui chiudiamo questo scritto, 18 ottobre, la Commissione europea, dopo mesi di pressioni da parte di molti Paesi, ha proposto un meccanismo di correzione dei prezzi del gas sul mercato basato su quattro punti:

  • nuovo meccanismo, da attivare “a condizioni specifiche”, di correzione dei prezzi di mercato del gas, da prevedere in un Regolamento del Consiglio approvato a maggioranza qualificata. Questo sistema, «fisserebbe, su base temporanea, un limite di prezzo dinamico per le transazioni sul TTF. Le transazioni a un prezzo superiore al limite dinamico non verrebbero autorizzate”, per evitare volatilità e prezzi eccessivi;
  • un nuovo indice che fissi il prezzo del gas liquefatto, sempre più utilizzato nei Paesi membri. Al momento, infatti, il prezzo delle importazioni del GNL è spesso basato sull’indice TTF, venendo dunque falsato dalle dinamiche di borsa e dal mercato del gas naturale;
  • acquisto congiunto di gas, tramite la creazione di un consorzio europeo di aziende (cui parteciperebbero obbligatoriamente le imprese nazionali), per soddisfare almeno il 15% dei rispettivi target di stoccaggio. Il consorzio avrà l’obbligo di avvisare la Commissione prima della conclusione di qualsiasi contratto d’acquisto superiore ai 5 TWh (circa 500 milioni di metri cubi);
  • regole di solidarietà tra Stati membri in caso di carenze di approvvigionamento, estese anche a quelli che non abbiano collegamenti diretti tramite gasdotti. Il documento introduce una formula di prezzo da applicare per proteggere le forniture di emergenza dalla volatilità̀ dei prezzi del mercato spot. Nel dettaglio, la bozza propone di utilizzare il prezzo medio di mercato del mese precedente la richiesta di assistenza.

Tornando a quanto esposto nel precedente numero di Artemisia Magazine, poteva essere previsto Putin volesse conquistare l’Ucraina e che l’energia sarebbe stata un’arma di ricatto verso l’occidente.

Innegabile la negligenza dell’Europa, che almeno potrebbe ora trarre lezione da quello che è avvenuto, con l’unico obiettivo di liberarsi del gas russo.

Ma soprattutto la sicurezza energetica deve tornare un obiettivo della politica, non potendo lasciare alle sole logiche di mercato il conseguimento di obiettivi per esse impossibili.

Abbiamo visto che per il gas non è possibile, nel breve periodo, fare affidamento su altri fornitori, ma nel lungo termine ci sono azioni da intraprendere:

  • fare ricorso a tutte le tecnologie disponibili e investire in quelle che consentano di superare l’intermittenza delle rinnovabili;
  • investire nell’idrogeno e nelle riconversioni conseguenti, cercando partenariati con i Paesi della sponda africana per la produzione: Algeria, Libia (compatibilmente con la situazione) ed Egitto. Sono Paesi che hanno grandi spazi (deserto) e, soprattutto, il sole ed il vento che possono generare l’energia necessaria alla produzione dell’idrogeno, a queste condizioni effettivamente “verde”;
  • utilizzare al massimo gli impianti esistenti sviluppando le opzioni disponibili (dalle rinnovabili ai biofuels, biometano, biogas, combustibili sintetici) e, sul lato della domanda, impegnarsi per aumentare l’efficienza energetica aldilà dell’effetto prezzi;
  • rafforzare le infrastrutture di trasporto per il gas naturale liquefatto, soprattutto la connessione dei gasdotti con la Spagna, per disporre delle sue ampie e sottoutilizzate capacità di rigassificazione;
  • sfruttare i giacimenti scoperti nel Mediterraneo orientale;
  • ricorrere alle risorse minerarie di cui potremmo disporre;
  • creare un’unica rete europea per il trasporto del gas, unificando le reti nazionali così da ottimizzare i flussi e rafforzare la capacità di sviluppo.

Ma, soprattutto, si deve auspicare un maggior intervento dei Governi nel settore energetico, per rendere compatibili due obiettivi: garantire la sicurezza energetica nel periodo contingente senza abbandonare l’obiettivo della transizione verso la neutralità carbonica e climatica entro il 2050.

In particolare, l’intervento pubblico dovrebbe evitare tre possibili fallimenti del mercato:

  • anzitutto, il settore privato non ha abbastanza risorse per realizzare in tempi brevi nuove infrastrutture necessarie alla sicurezza energetica, anche perché, per effetto della transizione energetica, esse potrebbero divenire obsolete prima del ritorno sull’investimento. La Lituania, ad esempio, nel 2014 ha realizzato il terminale galleggiante di stoccaggio e rigassificazione del GNL chiamato “Independence”, per ridurre la dipendenza dal gas russo. Operazione non sostenibile dalle aziende private;
  • i tempi della transizione energetica sono brevi. Perciò le nuove infrastrutture energetiche dovrebbero essere concepite come “asset di transizione”, per essere dismesse in un periodo più breve o pronte ad essere utilizzate per combustibili alternativi come l’idrogeno. In ogni caso, dovrebbero godere di periodi di ammortamento accelerati. Tutto questo è impossibile senza l’intervento dello Stato;
  • privati e imprese non possono sostenere i costi di decise politiche ambientali. E man mano che i cambiamenti climatici saranno più avvertibili, le azioni dei Governi saranno più necessarie. Tra l’altro, per fornire energia a basse emissioni ai Paesi in via di sviluppo, il cui fabbisogno energetico è in rapida crescita.

 

A Cura di

Dott. Paolo Poletti – Presidente Sicuritalia Security Solutions Srl Senior Advisor Artemisia Lab

 

 

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